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mercoledì 15 ottobre 2008

Il segreto di Fiabolina - di A. Dattola

Il segreto di Fiabolina
Un vento burlone, soffiando delicatamente tra i rami di un mandorlo fiorito, fece cadere una manciata di petali madreperlacei, dai quali, per il magico intervento di una fata in vena di stravaganze, nacque Fiabolina, una creatura davvero fantastica.
Dal padre, burlone, ma gentile come uno zefiro primaverile, ereditò la possibilità di sfiorare con carezze delicate chiunque le si avvicinasse e di sbriciolare la realtà in un pulviscolo di raffinata allegria; dalla madre ereditò un cuore pieno di dolcezza, che la rese amabile.
Per Fiabolina, naturalmente, era difficile adattarsi alla banalità della vita quotidiana, perché nel suo patrimonio genetico predominava la fantasia e il mondo, nel quale regnavano spesso l’egoismo, l’ invidia e la cattiveria, le faceva un po’ paura. Eppure doveva viverci e sforzarsi di dare il meglio di sé in ogni situazione, perché questo aveva promesso, un giorno, a chi le aveva donato la vita. Fiabolina era sola. Raramente suo padre la visitava dallo spiraglio di una finestra e le accarezzava la fronte senza farsi vedere, o la avvolgeva, per strada, in vorticosi mulinelli, dimostrandole la sua voglia bambina di giocare.
Sua madre vegliava su di lei, ma i suoi numerosi impegni non le consentivano di dedicare un’ intera giornata al dialogo. Questo, per Fiabolina, era un piccolo dramma, ma per fortuna riuscì presto a porvi rimedio.I suoi primi amici furono i libri e lei ne lesse tanti per cercare di scoprire un mondo che non conosceva e che non finiva mai di stupirla. Tra le tante parole, dense di significato, le capitò di leggere ,un giorno,che per gli uomini i ricordi sono molto importanti e sono, in fondo, quelli che si meritano…

Dopo aver a lungo meditato, Fiabolina decise di costruire i suoi ricordi, magari aiutata dalla fantasia. Trovò in soffitta un grande baule di legno, intarsiato, ed incominciò a sistemarli con cura. La sua pazienza certosina le permise di catalogarli:scartando quelli brutti, che tuttavia appartengono alla vita di ognuno, Fiabolina vi riponeva i sorrisi, le strette di mano, le cortesie, le recite di Natale che la facevano commuovere , le note di un’ Ave Maria, le risate, i piccoli sotterfugi e persino qualche bonaria parola di scherno…

Fiabolina custodiva gelosamente questo suo segreto, pensando di essere un po’ strana, ma, grazie alle quotidiane letture, riusciva a trovare una giustificazione autorevole alle sue inconsuete fantasie.”Non si ha una vita se non la si racconta”, sosteneva uno dei più autorevoli studiosi, che scrivevano libri “”importanti”, perciò c’era un filo logico che univa quanto lei andava facendo: il racconto, anche un po’ fantastico , della vita, il ricordo che lo immortalava, il baule…

Bene!Anche se il suo rimaneva ancora un segreto, non le appariva così fuori dall’ ordinario. Anche altri come me-pensava Fiabolina-vivono intensamente la loro vita ed hanno magari un baule più bello del mio, senz’ altro diverso….

Chissà-le balenò in testa una di quelle idee bislacche ereditate dalla madre- chissà che non sia anch’io chiusa in un vecchio baule…e un leggero rossore le colorò il viso.
A giocare con i ricordi si azzecca sempre perché, anche se di per sé non sono belli, dentro un baule, coperti dai veli trasparenti del tempo, si colorano delicatamente ed acquistano un fascino particolare. Fiabolina era felice, ogni sera, quando apriva il suo scrigno segreto e metteva ordine fra le sue cose… le sembrava di accumulare un tesoro d’ inestimabile valore e di vivere bene la sua vita, immersa nella realtà e capace di appoggiarsi alla fantasia.
Anche quando la noia della routine soffocava la sua giornata, appiattendola fino a farla diventare apparentemente senza significato, Fiabolina si ritrovava a riflettere, la sera, e c’ era sempre qualcosa di buono da sistemare dentro il baule , magari una parola buona o un gesto gentile: bastava raccontare dolcemente anche le più semplici esperienze per tramutarle in un piacevole ricordo. Passavano gli anni ed il baule era ormai pieno zeppo .Fiabolina pensava che tutto quel materiale le sarebbe servito a rendere meno pesante una vecchiaia che sentiva lontana, ma che presagiva triste e noiosa e si immaginava, sdentata e rinsavita dal tempo, vivere frugando soltanto fra i suoi ricordi. Passarono gli anni, perché il tempo vola, specialmente se lo si spende bene, e Fiabolina, figlia del vento e di una fata svagata, giunse alla senilità.
Era una vecchina simpatica, rugosa, un po’ curva, ma continuava a sorridere,nonostante le mancassero tanti denti.Ora non doveva più correre, non doveva fare la fila , pagare le tasse, lavorare….finalmente poteva starsene chiusa in casa a meditare. Non riusciva più a leggere bene, perché la vista le si era annebbiata, non sentiva più le voci della strada…Solo la tenue carezza di suo padre le sfiorava di tanto in tanto la fronte e la vigile assenza di sua madre le faceva battere forte il cuore.Fiabolina, creatura fantastica, si sedeva sulla sua poltrona ed apriva il suo baule di ricordi…quanti! L e sua mani tremanti sollevavano con reverenziale rispetto i veli del tempo e ne traevano reliquie lontane, che le restituivano la passata felicità. Un giorno, in quel suo frugare diventato ormai smanioso, le capitò fra le mani n libro. Lesse a stento il titolo”Le gioie dell’ amicizia” e lo aprì, avvertendo una strana sensazione. Ne uscì un pulviscolo dorato che, complice sua madre, la fece tornare indietro nel tempo .
Si rivide allegra e spensierata in un prato verde, con un aquilone in mano. Correva, Fiabolina, e a lei si univano tanti amici, provenienti dai luoghi più lontani, anche loro con un aquiolone in mano, chegridavano al mondo la loro gioia di vivere e guardavano in alto, verso il cielo, presi dalla voglia di volare. Poi Fiabolina si trovava al centro di quel prato irradiato dal sole, il cinguettio degli uccelli faceva da sottofondo ad un momento di gioia sincera e i suoi amici la circondavano.Il cerchio si trasformava, come per incanto, in una spirale colorata di mani, di volti, di corpi felici e Fiabolina, osservando il suo aquilone, sentiva esplodere dentro di sé le gioie dell’ amicizia. Perciò lasciava che il suo aquilone vagasse libero nel cielo e tutti i suoi amici la imitavano, conquistando la loro libertà. Poi si regalavano una risata argentina, che raggiungeva i posti più lontani. Lei non era più Fiabolina, ma tutti quelli che le stavano intorno, perché "Non è quello che io sono che conta, ma quello che noi siamo, perché solo l’ amore libera dai limiti”Anche questo pensiero era tratto da un libro letto molto temo prima…
Il magico pulviscolo dorato si disperdeva nell’ aria e il libro penzolava dalle mani di Fiabolina, che si era addormentata serenamente, accarezzata dal vento suo padre e cullata dalla madre, mentre una manciata di apetali bianchi copriva la sua poltrona..I ricordi custoditi con cura nel baule se n’ erano andati con lei, ma il libro no, quello era rimasto; era la ricca eredità di una creatura fantastica e tutti avrebbero potuto leggerlo, correggerlo e continuare a scriverlo…Fiabolina vi aveva lasciato tante pagine bianche….

Aida Dattola

Qui in terra...una storia vera

Qui in terra

Era un tardo pomeriggio di aprile, uno di quei giorni in cui la primavera ci sfiora e ci accarezza come le manine dolci e soffici di un bimbo.

Il sole ancora alto sull'orizzonte, l'aria lieve come piuma sulla pelle, e tutt'intorno il risveglio leggero e festoso dei fiori, dell'erba, degli alberi.

Benché fosse un periodo difficile, tanta era la gioia nell'aria che ne fui contagiata: passai in un negozio e comprai allegramente due paia di scarpe per me.

Me ne andavo, così, spensierata e contenta.

Fu davanti alla Upim che incontrai quella giovane donna straniera. Era ferma, pareva in attesa. Le rivolsi uno sguardo stupito e curioso: di dov'era? Pelle ambrata, capelli neri e lucenti, grandi occhi scuri, un sorriso dolce e mite. Sorrisi anch'io, passandole accanto. E lei mi fermò, con grazia discreta. “Mi scusi se mi permetto, mi vergogno molto, sa, ma ho una bambina piccola che deve mangiare, e non ho nulla. Sono uscita da poco dall'ospedale, avevo un cancro alla tiroide”.

Era struggente. Sembrava una persona distinta e parlava un italiano eccellente.

Guardai le mie scatole di scarpe: non potevo comprarne solo un paio?

Le diedi qualche euro, e intanto le andavo chiedendo di lei, di come fosse finita in Italia.

Veniva dall'India, al confine col Pakistan, dove c'era la guerra. Era dovuta fuggire. Suo padre massacrato. Lei aveva venduto tutto a precipizio e con sua mamma e la sua bambina era venuta qui da meno di un anno. Ma i soldi erano svaniti in un attimo, assorbiti dal viaggio, e per mesi avevano dovuto dormire sotto i ponti di Roma, la bambina di circa due anni, la mamma di più di settanta. Erano poi giunte all'Aquila non so più per quale avventura. Avevano un tetto, del cibo. Ma presto lei si era ammalata, ricoverata, operata. Senza lavoro.

In India era rimasto il marito e l'unico avere: la casa. Ma anche la casa era andata perduta, rasa al suolo da una bomba tremenda. Per fortuna il marito era salvo.

Lei aveva studiato in Italia, dieci anni prima, e in India insegnava. Stavano bene, prima della guerra, una famiglia unita e felice.

Poi la guerra, e in due o tre anni la distruzione totale, di tutto, di beni e di affetti.

Sentivo d'istinto che era sincera, e rimpiansi ancor più le mie spesi superflue. Le diedi altri euro e le lasciai il mio numero di telefono: non potevo fare chissà che, le dissi, ma se le difficoltà fossero state troppe poteva chiamarmi.

E dopo un mese chiamò. La aiutavo un pochino, quel tanto che lascia dignità a chi riceve e non spianta chi da.

A giugno un nuovo problema: la sua salute era in bilico e aveva bisogno dell'ospedale di Pisa. Mi chiedeva solo il biglietto del treno, ma io feci di più: le comprai due cellulari, per lei e per la mamma, che almeno potessero sentirsi, e le diedi un po' di soldi da dare a sua mamma per vivere qui mentre lei era fuori. Pian piano tutto si sarebbe aggiustato.

Partì. Cura e speranze iniziarono. Passò qualche giorno tranquillo.

Poi una domenica pomeriggio squillò il mio cellulare: sua mamma mi cercava.
Sua mamma! Non parlava italiano, non mi aveva mai vista: che poteva volere? Gelavo. Raccolsi le forze e risposi. Una voce disperata dall'altra parte: “I have a problem” - Ho un problema. Mi gelai ancor di più: “I have a problem”, la voce dall'Apollo 13, il grido disperato di chi era senza ossigeno.

In una frazione di secondo immaginai qualunque cosa, con un terrore incontrollabile.

Lei ripeteva che voleva sua figlia, che non riusciva a chiamarla e io “Ma tu stai bene, la bambina sta bene?” continuavo nel mio inglese stentato; lei non mi ascoltava, gridava soltanto il nome di sua figlia. Va bene, le dissi, la chiamo subito e ti faccio chiamare, va bene.

Intanto annottava. Finalmente si poterono sentire: la mamma era a Roma, e tranne la disperazione non si riusciva a capire che fosse successo. La figlia lasciò a precipizio l'ospedale di Pisa e prese il primo treno per Roma in piena notte.

Il giorno seguente lo seppi: la povera donna era stata portata per due giorni al mare con la bambina – come fosse un grande favore – dalla padrona di casa, e poi lasciata ad una stazione della metropolitana perché si arrangiasse da sola a tornare con l'autobus all'Aquila. Ma una rissa tra ragazzacci aveva attirato la polizia e lei senza permesso di soggiorno e senza documenti era stata arrestata insieme alla bimba che piangeva disperata e spaventata chiamando la mamma lontana. Avevano il figlio di via per rimpatrio immediato. L'indomani l'imbarco in aereo per l'India.

La figlia dovette fare un giorno di fila in Ambasciata per ottenere di vedere per pochi minuti sua mamma e la bimba e far sì che almeno viaggiassero insieme.

Poi tornò all'Aquila (chi pensava più alle cure di Pisa?) e insieme facemmo il biglietto per l'India anche per lei: una volta là, avrebbe fatto tutti i documenti regolari per tornare tutti insieme in Italia: lei, la bambina, il marito e la mamma.

Calcolammo la spesa, le diedi il necessario e partì. In un mese sarebbe tornata.

Il tempo passò. Nessuna notizia. Telefono muto. Provavo a chiamare. Niente.

Alla fine di agosto uno squillo: era lei!! Dov'era? Com'erano andate le cose?

“Sono a Lugoj”, mi disse. “Lugo di Romagna, in Italia?”, le chiesi. “No, Lugoj in Romania. La bambina è morta”. “Ma che dci, che dici?”.

La bambina era morta a Lugoj, allo scalo del viaggio di ritorno dall'India all'Italia. Fino ad allora era andato tutto a meraviglia, i soldi erano bastati, i documenti a posto. Tutto, tutto come in un sogno, un sogno vicino, un sogno di vita futura, di salute, di bene.

Poi la tragedia . Da giorni la bambina non stava più bene, dormiva e dormiva e si lagnava del sonno che aveva; però ormai era vicina l'Italia, si sarebbe trovato un dottore, si sarebbe curata se c'era qualcosa.

Ma la povera bimba aveva già troppo sofferto, le sue difese annientate non avevano retto all'urto dell'India e la prima infezione l'aveva aggredita. Meningite si pensa. Era uscita in punta di piedi da una vita appena sfiorata e già piena di stenti e spaventi. Era morta in terra straniera, e la piccola terra per il suo corpicino s'era dovuta comprare nel cimitero di Lugoj, una terra di scarto per chi ha pochi soldi, sempre piena di acqua e di fango.

Ma i dolori hanno sempre gemelli in agguato. Per la nonna della povera bimba fu uno strazio più forte di lei e in due giorni impazzì. Fu ricoverata all'ospedale di Lugoj e vi rimasi per mesi. A Natale morì. Era stata schiacciata dal senso di colpa per aver accettato l'offerta del mare e tutto ciò che ne era seguito, e il dolore di tutto fu troppo.

Di venire in Italia non s'è più parlato per la coppia rimasta, con quelle tombe a Lugoj il loro cuore era lì, e il permesso di lei era scaduto.

La salute di entrambi vacillò, ma quella di lei peggiorava ogni giorno: i suoi occhi perdevano vista, il diabete alle stelle, la pressione impazzita. E il poco salario che il marito riusciva ad avere non pagava le cure. La miseria ed il cuore spezzato per la loro bambina. Altri bimbi non potranno mai averne perché lei non può più, deprivata anche in questo dalla sorte bizzarra.

Non so se esista qualcuno su in cielo.
Non so se veda qualcuno su in cielo.
Non so se pianga qualcuno su in cielo.
O forse, su in cielo, non guarda nessuno, non piange nessuno, non vive nessuno.
E il dolore scorre asciutto qui in terra.
Non ci sono più lacrime, ne compassione.
Il cielo e la terra hanno altro da fare




30 luglio 2008
Maria Grazia Cinzio

Relazione Prof.ssa Roberta Magnante Trecco

BUONASERA A TUTTI
E GRAZIE PER ESSERE INTERVENUTI COSI' NUMEROSI ED AVERE ACCOLTO IL NOSTRO INVITO IN UN MOMENTO IN CUI LA CITTA', IN CONCOMITANZA CON LE CELEBRAZIONI CELESTINIANE, OFFRE PIU' DI UN INCONTRO.
ABBIAMO PENSATO E VOLUTO QUESTO CONVEGNO CON LO SCOPO PRECISO DI RENDERE NOTA A TUTTI I NOSTRI CONCITTADINI E NON, LA NASCITA DELLA SEDE AQUILANA DEL CENTRUM LATINITATIS EUROPAE, UN CENTRO DI RILEVANZA EUROPEA CHE SI OCCUPA ORMAI DA TEMPO DELLA SALVAGUARDIA DELLA CLASSICITA' .
PERSONALMENTE, HO AVUTO MODO DO CONOSCERE LA COORDINATRICE GENERALE, QUI PRESENTE, LA PROF.SSA LOREDANA MARANO, VICEPRESIDE DEL LICEO SCIENTIFICO "EINSTEIN" DI CERVIGNANO IN PROVINCIA DI UDINE, PUBBLICISTA E CRITICA LETTERARIA, GRAZIE AD UNA DELLE SUE PUBBLICAZIONI APPUNTO UNA GRAMMATICA DI LATINO PER I LICEI E DA LI' I NOSTRI CONTATTI SEMPRE PIU' FREQUENTI, CI HANNO GUIDATO ALL'IDEA E AL DESIDERIO DI AVERE ANCHE QUI ALL'AQUILA UNA SEDE DEL CENTRUM LATINITATIS EUROPAE.
UN GRAZIE PARTICOLARE, INOLTRE, DA PARTE MIA LE SIA DOVUTO PER IL SOSTEGNO ALLA MIA PUBBLICAZONE FLOS LATINO DA FAVOLA, LIBRO CHE AVVICINA GLI ALUNNI DI TERZA, QUARTA E QUINTA ELEMENTARE ALLO STUDIO DELLA LINGUA LATINA, DEL QUALE SI PUO' LEGGERE UNA RECENSIONE SUL SITO OMONIMO DEL CENTRUM, DA LEI CURATO IN QUALITA' DI WEBMASTER. DI COSA SI OCCUPA IL CLE NEL MONDO ORA ANCHE IN AMERICA E DI COSA SI OCCUPERA' INVECE LA NOSTRA SEDE, SARA' ESPOSTO RISPETTIVAMENTE DALLA COORDINATRICE E DALL'AVV. PAOLO ENRICO GUIDOBALDI, PRESIDENTE DELLA DELEGAZIONE ABRUZZO-MOLISE, CHE HA OSPITATO NEL SUO STUDIO IL NOSTRO PUNTO CLE. VOGLIO RINGRAZIARE, INOLTRE, IL RETTORE CANONICO DELLA BASILICA DI COLLEMAGGIO DON NUNZIO SPINELLI PER L'APPORTO DATO E PER QUANTO DI INTERESSANTE VORRA' RIFERIRCI NEL SUO INTERVENTO CIRCA LA LINGUADELLA BOLLA CELESTINIANA.
UN GRAZIE PARTICOLARE VA ALLA CORALE 99, MAGISTRALMENTE DIRETTA DAL M.° ORGANISTA ETTORE MARIA DEL ROMANO, AL SUO PRESIDENTE IL M.° NEMO CERASOLI, AL SOPRANO M.° MARIA PIA DI GIOIA E A TUTTI GLI STRUMENTISTI, CHE CI ALLIETERANNO AL TERMINE DI QUESTO INCONTRO CON IL LORO PROGRAMMA MUSICALE. GRAZIE E BUON ASCOLTO IL VICEPRESIDENTE DEL CLE DELEGAZIONE ABRUZZO-MOLISEPROF.SSA ROBERTA MAGNANTE TRECCO L'AQUILA 24 AGOSTO 2008