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mercoledì 15 ottobre 2008

Qui in terra...una storia vera

Qui in terra

Era un tardo pomeriggio di aprile, uno di quei giorni in cui la primavera ci sfiora e ci accarezza come le manine dolci e soffici di un bimbo.

Il sole ancora alto sull'orizzonte, l'aria lieve come piuma sulla pelle, e tutt'intorno il risveglio leggero e festoso dei fiori, dell'erba, degli alberi.

Benché fosse un periodo difficile, tanta era la gioia nell'aria che ne fui contagiata: passai in un negozio e comprai allegramente due paia di scarpe per me.

Me ne andavo, così, spensierata e contenta.

Fu davanti alla Upim che incontrai quella giovane donna straniera. Era ferma, pareva in attesa. Le rivolsi uno sguardo stupito e curioso: di dov'era? Pelle ambrata, capelli neri e lucenti, grandi occhi scuri, un sorriso dolce e mite. Sorrisi anch'io, passandole accanto. E lei mi fermò, con grazia discreta. “Mi scusi se mi permetto, mi vergogno molto, sa, ma ho una bambina piccola che deve mangiare, e non ho nulla. Sono uscita da poco dall'ospedale, avevo un cancro alla tiroide”.

Era struggente. Sembrava una persona distinta e parlava un italiano eccellente.

Guardai le mie scatole di scarpe: non potevo comprarne solo un paio?

Le diedi qualche euro, e intanto le andavo chiedendo di lei, di come fosse finita in Italia.

Veniva dall'India, al confine col Pakistan, dove c'era la guerra. Era dovuta fuggire. Suo padre massacrato. Lei aveva venduto tutto a precipizio e con sua mamma e la sua bambina era venuta qui da meno di un anno. Ma i soldi erano svaniti in un attimo, assorbiti dal viaggio, e per mesi avevano dovuto dormire sotto i ponti di Roma, la bambina di circa due anni, la mamma di più di settanta. Erano poi giunte all'Aquila non so più per quale avventura. Avevano un tetto, del cibo. Ma presto lei si era ammalata, ricoverata, operata. Senza lavoro.

In India era rimasto il marito e l'unico avere: la casa. Ma anche la casa era andata perduta, rasa al suolo da una bomba tremenda. Per fortuna il marito era salvo.

Lei aveva studiato in Italia, dieci anni prima, e in India insegnava. Stavano bene, prima della guerra, una famiglia unita e felice.

Poi la guerra, e in due o tre anni la distruzione totale, di tutto, di beni e di affetti.

Sentivo d'istinto che era sincera, e rimpiansi ancor più le mie spesi superflue. Le diedi altri euro e le lasciai il mio numero di telefono: non potevo fare chissà che, le dissi, ma se le difficoltà fossero state troppe poteva chiamarmi.

E dopo un mese chiamò. La aiutavo un pochino, quel tanto che lascia dignità a chi riceve e non spianta chi da.

A giugno un nuovo problema: la sua salute era in bilico e aveva bisogno dell'ospedale di Pisa. Mi chiedeva solo il biglietto del treno, ma io feci di più: le comprai due cellulari, per lei e per la mamma, che almeno potessero sentirsi, e le diedi un po' di soldi da dare a sua mamma per vivere qui mentre lei era fuori. Pian piano tutto si sarebbe aggiustato.

Partì. Cura e speranze iniziarono. Passò qualche giorno tranquillo.

Poi una domenica pomeriggio squillò il mio cellulare: sua mamma mi cercava.
Sua mamma! Non parlava italiano, non mi aveva mai vista: che poteva volere? Gelavo. Raccolsi le forze e risposi. Una voce disperata dall'altra parte: “I have a problem” - Ho un problema. Mi gelai ancor di più: “I have a problem”, la voce dall'Apollo 13, il grido disperato di chi era senza ossigeno.

In una frazione di secondo immaginai qualunque cosa, con un terrore incontrollabile.

Lei ripeteva che voleva sua figlia, che non riusciva a chiamarla e io “Ma tu stai bene, la bambina sta bene?” continuavo nel mio inglese stentato; lei non mi ascoltava, gridava soltanto il nome di sua figlia. Va bene, le dissi, la chiamo subito e ti faccio chiamare, va bene.

Intanto annottava. Finalmente si poterono sentire: la mamma era a Roma, e tranne la disperazione non si riusciva a capire che fosse successo. La figlia lasciò a precipizio l'ospedale di Pisa e prese il primo treno per Roma in piena notte.

Il giorno seguente lo seppi: la povera donna era stata portata per due giorni al mare con la bambina – come fosse un grande favore – dalla padrona di casa, e poi lasciata ad una stazione della metropolitana perché si arrangiasse da sola a tornare con l'autobus all'Aquila. Ma una rissa tra ragazzacci aveva attirato la polizia e lei senza permesso di soggiorno e senza documenti era stata arrestata insieme alla bimba che piangeva disperata e spaventata chiamando la mamma lontana. Avevano il figlio di via per rimpatrio immediato. L'indomani l'imbarco in aereo per l'India.

La figlia dovette fare un giorno di fila in Ambasciata per ottenere di vedere per pochi minuti sua mamma e la bimba e far sì che almeno viaggiassero insieme.

Poi tornò all'Aquila (chi pensava più alle cure di Pisa?) e insieme facemmo il biglietto per l'India anche per lei: una volta là, avrebbe fatto tutti i documenti regolari per tornare tutti insieme in Italia: lei, la bambina, il marito e la mamma.

Calcolammo la spesa, le diedi il necessario e partì. In un mese sarebbe tornata.

Il tempo passò. Nessuna notizia. Telefono muto. Provavo a chiamare. Niente.

Alla fine di agosto uno squillo: era lei!! Dov'era? Com'erano andate le cose?

“Sono a Lugoj”, mi disse. “Lugo di Romagna, in Italia?”, le chiesi. “No, Lugoj in Romania. La bambina è morta”. “Ma che dci, che dici?”.

La bambina era morta a Lugoj, allo scalo del viaggio di ritorno dall'India all'Italia. Fino ad allora era andato tutto a meraviglia, i soldi erano bastati, i documenti a posto. Tutto, tutto come in un sogno, un sogno vicino, un sogno di vita futura, di salute, di bene.

Poi la tragedia . Da giorni la bambina non stava più bene, dormiva e dormiva e si lagnava del sonno che aveva; però ormai era vicina l'Italia, si sarebbe trovato un dottore, si sarebbe curata se c'era qualcosa.

Ma la povera bimba aveva già troppo sofferto, le sue difese annientate non avevano retto all'urto dell'India e la prima infezione l'aveva aggredita. Meningite si pensa. Era uscita in punta di piedi da una vita appena sfiorata e già piena di stenti e spaventi. Era morta in terra straniera, e la piccola terra per il suo corpicino s'era dovuta comprare nel cimitero di Lugoj, una terra di scarto per chi ha pochi soldi, sempre piena di acqua e di fango.

Ma i dolori hanno sempre gemelli in agguato. Per la nonna della povera bimba fu uno strazio più forte di lei e in due giorni impazzì. Fu ricoverata all'ospedale di Lugoj e vi rimasi per mesi. A Natale morì. Era stata schiacciata dal senso di colpa per aver accettato l'offerta del mare e tutto ciò che ne era seguito, e il dolore di tutto fu troppo.

Di venire in Italia non s'è più parlato per la coppia rimasta, con quelle tombe a Lugoj il loro cuore era lì, e il permesso di lei era scaduto.

La salute di entrambi vacillò, ma quella di lei peggiorava ogni giorno: i suoi occhi perdevano vista, il diabete alle stelle, la pressione impazzita. E il poco salario che il marito riusciva ad avere non pagava le cure. La miseria ed il cuore spezzato per la loro bambina. Altri bimbi non potranno mai averne perché lei non può più, deprivata anche in questo dalla sorte bizzarra.

Non so se esista qualcuno su in cielo.
Non so se veda qualcuno su in cielo.
Non so se pianga qualcuno su in cielo.
O forse, su in cielo, non guarda nessuno, non piange nessuno, non vive nessuno.
E il dolore scorre asciutto qui in terra.
Non ci sono più lacrime, ne compassione.
Il cielo e la terra hanno altro da fare




30 luglio 2008
Maria Grazia Cinzio

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