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domenica 21 dicembre 2008

Dalla solidarietà alla condivisione

“DALLA SOLIDARIETÀ ALLA CONDIVISIONE”
a cura di Paolo Enrico Guidobaldi


Quando mi è stata offerta l’opportunità di intervenire in qualità di Relatore in questo nostro incontro ho accettato non senza preoccupazione per la complessità e vastità dell’argomento.
La curiosità di investigare in un ambito giuridico in qualche modo inflazionato per l’attenzione dei media ha comunque prevalso sulla opportunità di astenersi dal disquisire in questa sede davanti ad Autorevoli colleghi su tale argomento.
Per questa ragione l’ambito della presente relazione avrà più i connotati di una serie di quesiti giuridici proposti per suscitare ulteriori spunti di riflessioni, una sorta di prolusione alla quale dovranno necessariamente seguire ulteriori approfondimenti, che una relazione esaustiva come ci si aspetterebbe.
Così, pur consapevoli del fatto che, proporre un titolo quale quello “Dalla solidarietà alla condivisione”, poteva apparire ai più come una ripetizione di termini già usati in altri ambiti e per altri tipi di incontri, si è nuovamente voluto proporre, quasi per esorcizzare la difficoltà connessa alla vastità della materia.
Il proseguo della presentazione postula preliminarmente l’identificazione del significato che in questa sede si è voluto attribuire alla parola “solidarietà”, concetto di per sé esplicitato dall’impegno assunto dal Legislatore per i minori stranieri presenti in Italia mediante: “…programmi solidaristici di accoglienza temporanea promossi da enti, associazioni o famiglie” (art. 33, comma 2, lettera a D. Lgs. 286/1998).
Alla stregua di tale impostazione, la giurisprudenza ritiene di individuare nelle disposizioni di rango costituzionale anche il concetto di “condivisione” al fine di: “ … apprestare gli interventi essenziali quoad vitam diretti alla eliminazione della grave patologia che affligge lo straniero” (Cassazione civile , sez. I, 24 gennaio 2008, n. 1531, ed inoltre cfr. Cass. 20561/06).
Sono parole solo apparentemente inflazionate che, tuttavia, rappresentano la sintesi di un percorso sociale ed umano, espressione di una sorta di assuefazione e di sottovalutazione dei fenomeni sociali che a loro volta generano paure e che spingono il legislatore ad intervenire con atti di urgenza e di necessità, modificando con un solo provvedimento sia il diritto sostanziale che il diritto processuale penale, creando sconforto nell’interprete.
Com’è a tutti noto, la Legge 24 luglio 2008, n. 125 detta misure più stringenti per persone che, a vario titolo, sono presenti nel nostro territorio e le qualifica utilizzando una terminologia che etimologicamente rimanda al latino “extraneus”, ovvero colui che è presente sul territorio dello Stato pur non avendo la cittadinanza italiana.
Fino all’entrata in vigore del D. L. del 23 maggio 2008, n. 92 (convertito successivamente con modificazioni nella Legge 125/2008), per l’Ordinamento italiano, gli stranieri, erano unicamente i cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea e gli apolidi (cfr. art. 1, comma 1, Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 289) chiarendo altresì che tutte le norme dettate nel Testo Unico non si potessero applicare “…ai cittadini degli Stati membri dell'Unione europea, se non in quanto si tratti di norme più favorevoli…” (art. 1, comma 2 D.Lvo 289/98).
Per tutti coloro i quali potevano beneficiare di un passaporto comunitario, in caso di allontanamento per necessità od opportunità, si sarebbe dovuto comunque applicare una normativa differente e questo per: “… garantire la piena ed integrale attuazione delle norme comunitarie relative alla libera circolazione delle persone in materia di ingresso, di soggiorno, di allontanamento…” (cfr. art. 45, comma 2, lettera a- Legge 6 marzo 1998, n. 40).
L’ultima disposizione testé citata, trova un corrispondente nel combinato disposto degli artt. 2, 3 e 12 Tratt. CE, che sancisce il principio della parità di trattamento di tutti i cittadini dell’Unione Europea con il connaturale ed espresso divieto di discriminazione delle persone in base alla cittadinanza e/o alla residenza degli stessi.
Oltretutto, il principio della parità di trattamento, enunciato sia dal Trattato, sia nel Regolamento CE n. 1612/68 (relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità), vieta non soltanto le discriminazioni palesi in base alla cittadinanza, ma altresì qualsiasi discriminazione dissimulata che, pur fondandosi su altri criteri di riferimento, pervenga al medesimo risultato.
Tale rigorosa interpretazione, necessaria a garantire l’efficacia di uno dei principi basilari della Comunità, è altresì espressamente riconosciuta dal preambolo (nr. 5°) del citato Reg. CE n. 1612/68, nella parte in cui si legge che la parità di trattamento dei cittadini deve essere assicurata ”di diritto e di fatto”.
Tale visione giuridica ultranazionale, trova sostegno e conforto nel Regolamento n. 1612 del 1968 dove – agli artt. 10-12 – dispone che: "..hanno diritto di stabilirsi con il lavoratore, cittadino di uno stato membro occupato sul territorio di un altro stato membro, qualunque sia la loro cittadinanza, il coniuge e i loro discendenti minori …o a carico nonché gli ascendenti (genitori) di tale lavoratore e del suo coniuge (anche extracomunitario) che siano a suo carico".
In tal senso è da interpretare anche l’art. 18 del Trattato Istruttivo della Comunità Europea nella parte in cui prevede il diritto di libera circolazione dei cittadini comunitari e riconosce un diritto soggettivo di ogni cittadino dell’U.E. al rilascio della carta di soggiorno.
Dal un punta di visto meramente sistematico, il Testo Unico poteva lasciar intendere di essere in una fase ideologico-dogmatica tale da consentire di far tornare in auge, almeno per l’Europa Comunitaria, l’espressione romanistica tradizionale di una “societas generis humanis”, con norme superiori condivise da un ambito esteso di persone sottratte, almeno in parte, all’imperio di una sola realtà statuale.
Con l’entrata in vigore della Legge 24 luglio 2008, n. 125 si deve prendere atto della circostanza per la quale la citata norma rappresenta sicuramente l’esercizio delle prerogative della Sovranità nazionale con la conseguente crisi dell’universalismo giuridico continentale, tanto enunciato.
La difficoltà tecniche della nuova normativa, tuttavia, non si esauriscono qui in quanto si devono segnalare alcune imprecisioni nella terminologia utilizzata, certamente risultato di una fretta eccessiva nella compilazione del testo.
Un primo indizio lo si ricava dalla lettura del titolo dell’articolo 235 del codice penale, così come modificato dalla citata legge (125/08), il quale precisa che, la norma che segue, detta disposizioni sulla “Espulsione od allontanamento dello straniero dallo Stato”.
Pur consapevoli che “Rubrica legis non est lex”, è solo nel testo si rinviene la precipua volontà del Legislatore in quanto ivi prescrive che: “Il giudice ordina l'espulsione dello straniero ovvero l'allontanamento dal territorio dello Stato del cittadino appartenente ad uno Stato membro dell'Unione europea…” (art. 235 CP).
L’indicazione immediata che si ricava dalla lettura del testo è che con la Legge 24 luglio 2008, n. 125 si sia voluto distinguere tra il cittadino italiano e la persona presente nel territorio dello Stato senza altra specificazione, ponendo sullo stesso piano lo straniero ed il comunitario.
Elemento linguistico che pone le due situazioni sullo stesso piano giuridico e concettuale è l'uso di una congiunzione: così, mentre nella lingua scritta la congiunzione “ovvero” continua a permanere con il suo senso avversativo, in questo caso il Legislatore sembra abbia inteso utilizzarlo più nel suo senso di linguaggio parlato e attribuirgli sicuramente quel significato esplicativo che tende ad abbreviare e semplificare termini e costruzioni espressive e ad attribuirgli il valore di "Ovverosia".
Verosimilmente si ritiene che in questo caso possa avere anche il valore di congiunzione disgiuntiva-esclusiva, presentando allora due possibilità alternative l'una all'altra.
Chiaramente non si obietta nulla circa la legittimazione di emanare tali disposizioni, ma corre l’obbligo di chiarire che la c.d. “autoritas” ha indirettamente enunciato il principio della obbligatorietà di una norma qualificando tutti i non cittadini italiani come “homines viatores” e questo determina una serie di problematiche.
Tentando di definire giuridicamente il concetto sopra espresso, il Legislatore – con la L 125/08 - ha inteso distinguere in due categorie quanti sono presenti sul territorio dello Stato,: nella prima sono inseriti quanti, per lo “ius sanguinis” o per lo “ius soli”, possono beneficiare delle disposizioni rese dalla Legge 5 febbraio 1992 n. 91; nella seconda gli stranieri ed i cittadini comunitari.
Rimane da comprendere cosa intenda il legislatore con il termine straniero e come considerare da un punto di vista giuridico, le persone presenti in Italia e suddivisibili in sottocategorie così da comprendere:
a) lo straniero profugo (ritenuto tale per essere una persona costretta ad abbandonare la propria dimora ed i propri affetti a causa di conflitti bellici o di eventi di varia natura, più o meno violenti, od a seguito di catastrofi naturali) e, comunque, non garantiti e tutelati da disposizioni particolari (cfr. Circ. PCM Dica 2428/terza/19.10.6.1 del 15.3.2002; Legge 15 ottobre 1991 n. 344; Legge 26 dicembre 1981, n. 763);
b) lo straniero migrante (per essere stato considerato a suo tempo uno sfollato);
c) lo straniero rifugiato (comunque tutelato agli artt. 32 e 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 in quanto ratificata con Legge 27 ottobre 1951, n. 1739);
d) lo straniero richiedente asilo (garantito nell’Ordinamento italiano direttamente dall’art. 10, 3 comma Costituzione);
e) lo straniero apolide (qualificabile come categoria protetta in quanto rientrante nell’espressa previsione dell’art. 19 T.U. del Decreto legislativo 286/98 e per i quali non valgono sia i provvedimenti di espulsione sia il respingimento alla frontiera). Corre l’obbligo di sottolineare che in questo caso è possibile applicare lo status di apolidi solo a quanti sono riconosciuti come tali (cfr. Convenzione di New York del 1954 relativa allo status degli apolidi; Convenzione del 1961 sulla riduzione dell'apolidia), ma anche a quanti come nel caso dei Bedoun, una popolazione numericamente considerevole in alcuni paesi della penisola araba, fra i quali il Kuwait, che vivono da generazioni “ereditando” la non cittadinanza: per inciso la parola “bedoun”, nella loro lingua, significa “senza”.
Sicuramente un altro discorso deve essere fatto per un’altra sottocategoria di stranieri che sopra non sono stati considerati e che in qualche modo beneficiano di uno status tale da essere considerati.
Senza dover scomodare il principio enunciato l’art. 3 della Costituzione, appare necessario che a quanti sopra elencati, si debbano poi aggiungere gli stranieri rientranti nell’ipotesi dell’art. 19 D.Lgs. 286/98 e qualificati dalla norma come una serie di categorie protette quali: a) lo straniero minore di anni 18, salvo il diritto del minore di seguire il genitore o l'affidatario espulso; b) lo straniero in possesso della carta di soggiorno; c) lo straniero convivente con parenti entro il quarto grado o il coniuge, di nazionalità italiana.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha inoltre inteso individuare prevedere meritevoli di tutela anche altre due sottocategorie: a) la donna straniera in stato di gravidanza ed il di lei figlio fino al sesto mese dalla nascita (cfr Corte Costituzionale, Sentenza 12.7.2000, n. 376); b) lo straniero in gravi condizioni di salute (Corte Costituzionale, Sentenza n. 252 del 5.7.2001).
Solo a titolo di provocazione ci si chiede: premesso che l’art. 2 Costituzione riconosce: "… i diritti inviolabili dell’uomo" ed il successivo art. 24 Cost. utilizza l’aggettivo “tutti” con funzione attributiva – per indicare la totalità delle persone -, forse la Legge 24 luglio 2008, n. 125 ha inteso fare qualcosa di innovativo.
Allora per comprendere lo status di tali stranieri intoccabili bisognerebbe scomodare Seneca che, nel suo “De Beneficiis”, precisava quanto fosse fondamentale distinguere tra il “beneficium” (inteso come dono autentico elargito a modello dell’agire degli dei) ed il “munus” (atto volto a gratificare o ad esaltare il donatore).
Sembra, pertanto, drammaticamente riproporsi il pensiero di Raoul Follerea il quale affermava che:
"una grande povertà toglie all’uomo ciò che c’è di prezioso per lui, la sua dignità di uomo"
ed i giuristi dovrebbero ricordare
"Non c'è pace senza giustizia"
(Giovanni Paolo II - messaggio per la giornata della pace 2002).

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